L'America Latina avanza, goleada di Rafael CorreaDAL BLOG MONDOCANE DI Fulvio Grimaldi
Quando si dirà in un qualsiasi paese del mondo: i miei poveri sono felici, né ignoranza, né carenze si trovano tra di loro, le mie prigioni sono vuote di detenuti, le mie strade libere da mendicanti, gli anziani non sono deprivati, le tasse non oppressive, il mondo razionale è mio amico perché io sono amico della sua felicità. Quando si possono dire queste cose, allora il mio paese potrà vantersi della sua costituzione e del suo governo. Thomas Paine)
Noi qua ci dibattiamo tra i fanghi volanti di un’immonda campagna elettorale, i cui protagonisti sono tutti indistintamente burattini della criminalità finanziaria, religiosa e mafiosa organizzata e si dicono chierichetti del golpista Napolitano, a sua volta lustrascarpe della supermarionetta Obama. L’unico che esce dal coro e si astiene da riverenze e baciamano, addirittura osa l’inosabile spernacchiando gli Usa e Israele, rifiutando le guerre e gli strumenti di guerra a cui i licantropi imperiali trascinano gli sguatteri spendibili, il “comico”, il “populista”, “l’antipolitico”, cioè l’unico non populista e seriamente politico, viene criminalizzato, sbeffeggiato, insultato, diffamato. Gente che non ha nulla da dire sullo sterminio di un popolo dopo l’altro nel Sud del mondo, sulle strategie di malattia e fame che falciano bambini e donne a milioni, si strappa le vesti per un’uscita infelice di Grillo sugli immigrati. Gente che considera il feldmaresciallo SS Obama, devastatore della costituzione americana, primatista guerrafondaio della storia Usa, creatore del più grande Stato di polizia del mondo, uno che con i droni assassini si è fatto insieme accusa, giudice e boia di chiunque gli faccia saltare la mosca al naso, nasconde il proprio asservimento a questa forma di tecnodittatura postnazista sotto gli alti lai per la sprovveduto apertura del Grillo a Casa Pound.
Dedicando il trionfo elettorale a Hugo Chavez e ai caduti nella difesa del presidente e dell’ordine democratico, al tempo del colpo di Stato del 2010 che doveva culminare con l’uccisionedel Capo di Stato, sequestrato nell’ospedale della Polizia, Rafael Correa, in carica dal 2006, ha detto: “Abbiamo sconfitto i demagoghi e la stampa mercatista e renderemo irreversibile la relazione di potere a vantaggio della maggioranza e a scapito dei poteri di fatto. Qui non comanderanno la bancocrazia, le potenze mediatiche, qui non comanderanno gli Stati egemonici; con questa rivoluzione comanderanno le equatoriane e gli equatoriani. Continueremo con questa rivoluzione e si sappia che non falliremo. Potremo commettere, da esseri umani, molti errori, ma colui che afferma di non commettere errori e colui che non ha mai fatto niente nella vita. Non ipotecheremo la patria per consentire l’ingresso del capitale multinazionale e daremo al debito sociale la priorità su quello estero.
Le prime felicitazioni al vincitore sono arrivate da Cuba, Nicaragua, Venezuela, Bolivia, Argentina, dallo schieramento dei paesi dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe) di cui l’Ecuador di Correa è entrato a far parte (e non gli è andata storta come al presidente honduregno Manuel Zelaya, rovesciato da un golpe Usa), in particolare da Hugo Chavez in fase di convalescenza all’Avana.
Alle elezioni presidenziali e parlamentari di domenica, il presidente Rafael Correa ha trionfato con quasi il 60% dei voti di oltre 11 milioni di elettori (secondo gli exitpoll), conseguendo 10 punti in più rispetto al 2009 e distanziando il rivale più accreditato, il banchiere sponsorizzato dagli Usa Guillermo Lasso, di più di 30 punti. A prefisso telefonico l’esito degli altri concorrenti, dal destro Lucio Gutierrez al sinistro Alberto Acosta, uno per il quale l’oramai del tutto normalizzato “manifesto” filo-vendolian-bersaniano ha voluto sbilanciarsi con soffietti elogiativi. In Parlamento il partito di Correa, Alianza Pais, avrà la maggioranza assoluta e potrà finalmente procedere a misure di salvaguardia ambientale e di democratizzazione di un’oligarchia mediatica asservita ai poteri economici e al diktat imperialista.
Ho avuto il privilegio, a metà del decennio, di vivere e filmare quanto stava rovesciando nel suo contrario il paradigma di un America Latina “cortile di casa degli Usa”. Ho visto come si possono fare rivoluzioni vincenti nell’era della dittatura neoliberista e dell’offensiva imperialista finalizzate a succhiare quanto di plusvalore resta nei paesi già saccheggiati dal colonialismo. In Ecuador, alla rivolta degli indigeni nelle zone devastate dalla Chevron e da altri cannibali petroliferi, rispondevano a Quito i forajidos, l’equivalente dell’argentino que se vayano todos, con una mobilitazione di mesi e una risposta adeguata alla violenza del corruttissimo fantoccio Usa, Lucio Gutierrez. La rivolta culminò con l’occupazione del parlamento e la paralisi dello Stato. Aveva trionfato quella revolucion ciudadana che Correa, poco dopo, avrebbe istituzionalizzato con la nuova costituzione democratica, ecologica, partecipativa. Ancora una volta, come prima in Argentina, Venezuela, e poi in Bolivia e Nicaragua, sono state le masse, non a prendere il Palazzo d’Inverno, ma ad assediarlo, soffocarlo, disintegrarlo e, democraticamente, attraverso il processo elettorale sostenuto dalla mobilitazione rivoluzionaria, processo elettorale che fin lì era sembrato essere solo lo strumento della paradittatura del capitale e delle potenze coloniali, conquistare il potere.
Per la prima volta nella storia del pianeta un presidente ha fatto iscrivere nella Costituzione la personalità giuridica della Natura, ha cacciato su due piedi la base yankee di Manta, la più grande nell’America Latina, ha rivendicato al petrolio il diritto di essere pagato dagli Stati per essere lasciato sotto terra. Ai peggiori distruttori degli ecosistemi nell’Amazzonia dei giacimenti petroliferi è stato dato il benservito e, per via legale, se ne reclamano gli indennizzi. Al diavolo sono mandati gli avvoltoi del FMI e della BM, è stata ridotto il debito, con Chavez è stato respinto l’ALCA, il trattato di libro scambio con cui gli Usa intendevano spolpare l’America Latina.
Cento erano gli obiettivi della Revolucion ciudadana, in massima parte realizzati durante i due mandati di Correa. Nel 2006 per ogni dollari investito nella spesa sociale, se ne investiva 1,8 nel debito estero. Nel 2011 di quel dollaro solo 33 centesimi andavano a pagare il debito. Puntando verso la piena occupazione, si é grandemente ridotta la disoccupazione, nell’ambito di una spesa per la sanità decuplicata si è ridotto di cinque volte il paludismo, malattia endemica. Di 8 volte si è aumentata la spesa per l’istruzione e la ricerca, l’investimento per lo Stato sociale per cittadino passava in cinque anni da 90 dollari a 446 e la povertà veniva ridotta di 12 punti. Sono aumentate le case popolari, è in corso un grande piano infrastrutturale per agevolare la comunicazione tra comunità e aree produttive, nel massimo rispetto dell’ambiente e dei popoli nativi. Presso la base di questi popoli Correa, come rivelano sondaggi e manifestazioni, gode di un vastissimo consenso. Non così nella loro massima organizzazione, la CONAIE.
Correa, infatti, non ha dovuto soltanto affrontare la solita panoplia della guerra medatica, con i grandi giornali e le emittenti in mano all’oligarchia e le cannoniere occidentali, dalla BBC alla CNN e al Pais, impegnati alla morte con diffamazioni, annunci di brogli, le solite accuse di caudillismo autoritario e le manovre di destabilizzazione con tentativi di golpe e sabotaggi di varie corporazioni e Ong. Tra i più accaniti avversari di Correa e della rivoluzione sono stati dall’inizio i dirigenti della CONAIE. Un’opposizione che, ammantata di integralismo ecologico, assumeva antistorici caratteri di etnicismo separatista. Avevo intervistato Luis Macas, all’epoca presidente della CONAIE, per sentirmi illustrare, sotto l’etichetta di Stato Multinazionale, il fantasioso e anacronistico progetto di una riunificazione dei popoli indigeni in entità autonoma, dal Perù alla Bolivia e all’Ecuador e a quali altri indios ci stessero. Il modello, dichiarò Macas, era l’impero Inca. Un riordinamento su base monoetnica che avrebbe comportato la dissoluzione degli Stati presenti e della loro sovranità. Con grandissima soddisfazione di un imperialismo in ritirata, ma non rassegnato.
La CONAIE e la sua espressione partitica, il Pachakuti, avevano, a suo tempo, sostenuto e difeso fino all’ultimo il peggiore dei tiranelli neoliberisti e filo-Usa della parte finale del secolo scorso. Lucio Gutierrez, indio rinnegato e anche un po’ folle, primatista di corruzione e protagonista di uscite bislacche alla Berlusconi, uno che aveva steso il paese a zerbino sotto gli anfibi militari ed economici Usa, era poi stato defenestrato dai forajidos, eminentemente studenti, lavoratori e ceto medio urbano, mentre le organizzazioni indigeni erano rimaste alla finestra, o accanto a Gutierrez. Quando la revolucion ciudadana cambiava paradigma sociale e costituzionale, aprendo a inediti riconoscimenti della particolarità indigena ed evidenziando, al confronto, il disastro sociale e i delitti personali di Gutierrez, i dirigenti Indios dettero segno di ravvedimento e di riconoscimento di quanto veniva messo in opera.
Ma è durata poco. Al colpo di Stato di un gruppo di questurini, teleguidati dall’ambasciata Usa, ebbero la faccia di esprimere il proprio appoggio, per quanto smentiti dalla loro base. Con rivendicazioni di integralismo ambientalista, si opponevano a qualsiasi, pur prudente, opera che il governo attuava sul piano infrastrutturale per impedire che il paese sprofondasse nel limbo degli importatori totali. Ricordo la battaglia per l’acqua, che Correa voleva pubblica, ma organizzata da un ente di Stato per garantirne l’equa distribuzione tra chi ne aveva tanta e chi non ne aveva punta, a cui i dirigenti indigeni risposero con la pretesa di sapore leghista: “l’acqua a chi ce l’ha”.
Il “manifesto” ha voluto commentare la campagna elettorale in Ecuador, dando ampio spazio a tale Alberto Acosta, leader di un “movimento di sinistra”, formato da maoisti, trotzkisti, radicali vari, alcuni accademici, che, da sinistra, contestava i provvedimenti del governo, qualsiasi settore riguardassero. Al progetto di Acosta hanno subito aderito i vertici delle organizzazioni indigene, la cui forza elettorale non era stata sufficiente a guadagnarsi spazi all’interno delle istituzioni rivoluzionarie. Visto che, a ben guardare, le differenze ideologiche tra questi gruppi e il partito di governo sono di scarsa rilevanza, è fondato il sospetto che si tratti di motivazioni personalistiche, da una parte, e di rivendicazioni etniciste dall’altra. Ed è un vero peccato che, in un processo di cambiamento drastico, con il conseguente passaggio di potere e di ricchezza da una minoranza di parassiti alla maggioranza della popolazione, vi siano queste divisioni.
Che poi si possono vedere anche in altri paesi a indirizzo progressista, dove spesso le organizzazioni indigene sono impegnate, per effettivi interessi corporativi, ma sotto il manto dell’assolutismo ecologico-separatista, a destabilizzare governi invisi all’imperialismo e ai suoi fiduciari locali. Organizzazioni alle quali, del resto, non mancano il plauso e il fattivo impegno di numerose Ong del Nord del mondo, un po’, come USAIDS, autentici tentacoli del servizi segreti imperiali, un po’ soggetti dall’ispirazione caritatevole, la cui visione della questione indigena latinoamericana è adulterata da un romanticismo ascientifico e, soprattutto, interclassista ed etnicista. Alla Marcos, per intenderci. Episodio significativo di questo attrito visto con grande benevolenza dalle centrali neoliberiste fu la famosa questione della strada che avrebbe dovuto unire la Bolivia dal Brasile alla costa pacifica, attraversando una riserva naturale, Tipnis, abitata da alcune migliaia di indigeni. Opera indispensabile per la crescita del ruolo commerciale di una Bolivia chiusa nel suo isolamento territoriale. Evo Morales aveva ripetutamente invitato tutte le parti al dialogo su eventuali correzioni di percorso, senza che l’invito venisse accolto. Continuavano invece le barricate. Ora il progetto è stato sospeso in attesa che i portatori della protesta si acconcino a discuterne con il governo e con le altre componenti sociali che della mancanza di comunicazioni soffrono gli effetti.
Sia detto con assoluto rispetto e solidarietà per le realtà native che, con più matura coscienza politica, si battono nelle società neoliberiste, come nel Cile i Mapuche o in Honduras gli indios e gli afrodiscendenti, insieme a tutti gli “sfruttati e oppressi” del loro paese.
fONTE:
http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/ ... da-di.html
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
Ennio Flaiano