da domenico.damico » 14/04/2015, 14:29
L'intervento del Segretario di Stato del Vaticano ad una presentazione del numero di Limes riportato qui sopra:
Il papa, la moneta e l’impero
Eccellenze, Signore e Signori, Cari amici,
Ringrazio il Dott. Caracciolo e il Dott. Schiavazzi per l’invito che mi hanno rivolto a tenere questa lectio in occasione dell’uscita del volume di Limes “Moneta e Impero”, dedicato principalmente ai rapporti fra finanza e politica. Si tratta di un’importante analisi delle grandi tendenze della geopolitica mondiale e della contrapposizione tra le potenze, dal punto di vista dei rapporti tra le principali monete nazionali, in un mondo altamente interdipendente. Il riuscito sottotitolo “guerre valutarie e centri di potenza” condensa bene il contenuto del volume e rimanda ad un giudizio etico sulle guerre e sulle pretese egemoniche.
Come la Chiesa condanna il nazionalismo estremo e le guerre, così si deve concludere che implicitamente condanna le “guerre finanziarie”, nelle quali la manipolazione delle monete nazionali diventa uno strumento attraverso il quale gli Stati impongono la propria supremazia od offrono benefici ai propri cittadini a scapito di quelli di altri Stati. Il secolo XX, specialmente dopo la prima guerra mondiale, è stato uniformemente caratterizzato dagli interventi dei Governi sull’attività economica nazionale tramite veri atti d’imperio (nel senso di esercizio della massima autorità), che determinavano l’offerta di credito, la quantità di moneta circolante e il valore della moneta stessa, in rapporto ai beni e ai servizi che si scambiavano e ad altre valute straniere.
Tali atti di autorità erano indirizzati essenzialmente all’economia interna, alla quale si voleva assicurare un funzionamento equilibrato. Il giudizio della Dottrina sociale della Chiesa al riguardo delle finanze, quindi, si trovava implicito nel giudizio morale sull’andamento generale dell’economia e sulla sua capacità di rispettare la dignità umana e favorire i più poveri. Tuttavia, dal momento in cui lo sviluppo tecnologico tendeva, già dalla seconda metà del secolo XIX, ad integrare il mondo in un unico spazio economico, le misure monetarie nazionali non potevano non avere ricadute sugli altri paesi con cui si tenevano rapporti economici.
Conseguentemente, il tentativo di limitare gli effetti dell’espansione e contrazione dei cicli economici nazionali diede origine spesso ad una concorrenza economica sleale, che provocò successivamente uno stato di “guerra delle valute”. Così, il rapporto tra moneta e impero, dapprima inteso come l’esercizio della massima autorità nazionale (l’imperium dei romani), si trasforma nel senso di una egemonia sovranazionale. Successivamente, la concorrenza “selvaggia” tra le monete e le regolamentazioni finanziarie nazionali diverrà una vera e propria guerra senz’armi, ponendo le premesse per un eventuale guerra armata.
In una manifestazione di realismo estremo, il secondo articolo del numero di Limes che ora si presenta afferma che il “valore intrinseco di una moneta è l’autorità politica e militare di chi la batte, nonché la sua percezione imperiale” (p. 24). In ragione di ciò, si è visto nelle turbolenze economiche e finanziarie successive alla prima guerra mondiale una delle cause della seconda. E di conseguenza, l’architettura internazionale prevista alla fine del secondo conflitto mondiale si proponeva di assicurare una pace duratura, articolando un sistema normativo internazionale sovrastante a ogni conflitto tra le Nazioni, compresi quelli economici, al quale dovevano sottomettersi anche le pretese imperiali o egemoniche. La costruzione di Dumbarton Oaks/San Francisco, che diede origine all’Organizzazione delle Nazioni Unite, era l’apice di un edificio che includeva i risultati della Conferenza di Bretton Woods del 1944, con la creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo (oggi Gruppo della Banca Mondiale), e doveva integrarsi anche con la creazione, durante la Conferenza dell’Avana, dell’Organizzazione Internazionale del Commercio, che non riuscì tuttavia a prendere vita.
Così, si presupponeva che finanza e commercio internazionale avrebbero funzionato armonicamente grazie al coordinamento internazionale di tutti gli affari politici, a partire dalla rinuncia definitiva alla guerra. La pace duratura voluta dal progetto del 1944-1945, doveva, quindi, fondarsi su quattro grandi pilastri: 1) la supremazia del diritto internazionale; 2) un sistema sovranazionale di soluzione pacifica dei conflitti; 3) la pacifica e sincera armonizzazione delle finanze e degli scambi commerciali; 4) gli scambi culturali tra i popoli, questi ultimi garantiti dall’Unesco, prevista alla Conferenza di Londra del 1944 e creata a Parigi nel 1946. Tutto ciò, inoltre, doveva basarsi su un atteggiamento etico o morale degli Stati e degli attori politici, altrimenti l’edificio avrebbe sempre rischiato di crollare.
Nella prospettiva del progetto di creazione delle Nazioni Unite, includendo le istituzioni di Bretton Woods, è utile rileggere la lettera di Papa Benedetto XV ai Capi dei popoli belligeranti del 1° agosto 1917. In essa si trovano già abbozzati, in modo profetico, i quattro menzionati capisaldi di una pace giusta e duratura. Essi – diceva il papa – devono far sì “che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto… un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire…e, in sostituzione delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo norme da concertare”. Il pontefice si soffermava poi sulla libertà del commercio, delle comunicazioni e degli scambi culturali: “Stabilito così l’impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso”. Da ultimo, la subordinazione delle pretese finanziarie al bene superiore della pace: “Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione”. La stessa lettera ricordava che le ragioni economiche egoistiche degli Stati sono causa dei conflitti bellici.
L’appello di Benedetto XV era soprattutto un forte richiamo etico alla responsabilità dei Governanti, il cui primo e assoluto dovere è di procurare “la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli”. In esso è implicita la visione della comunità internazionale come famiglia di Nazioni. Fu, però Pio XII, nel suo discorso al Corpo Diplomatico del 25 febbraio 1946, ad utilizzare per la prima volta l’espressione “famiglia delle Nazioni”, coniando un concetto che sarebbe stato ripreso dai suoi successori. Il Beato Paolo VI, il 4 ottobre 1965 si rivolgerà alle Nazioni Unite parlando della grande “famiglia dei popoli”. San Giovanni Paolo II, poi, il 3 ottobre 1995, tornerà a parlare della comunità internazionale come “famiglia dei popoli e delle nazioni” e si soffermerà sulla descrizione dei rapporti di famiglia, che vanno ben oltre gli equilibri politici e l’architettura giuridica.
È utile qui citare direttamente le sue parole: “Occorre che l’Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le Nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una ‘famiglia di Nazioni’. Il concetto di ‘famiglia’ evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti”. Infine, anche Benedetto XVI, nel suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008, riprenderà e insisterà sul concetto di famiglia di Nazioni. In questa concezione della comunità internazionale come “famiglia”, pertanto, rintracciabile già in Benedetto XV e resa esplicita e fortemente impegnativa specialmente da Giovanni Paolo II, non c’è posto per nessun tipo di guerra. Non solo la guerra armata, ma nemmeno le guerre finanziarie, commerciali o culturali.
Occorre tuttavia cercare di capire perché la Dottrina sociale della Chiesa non toccò maggiormente la tematica delle finanze internazionali, viste come azioni concorrenziali tra gli Stati, simili alle azioni belliche. Il giudizio sulle finanze, da una parte – e lo abbiamo già visto – si trovava implicito nel giudizio generale sull’andamento delle economie nazionali. Dall’altra, si deve dire che i papi e la Santa Sede non hanno mancato di parlare delle finanze globali, ma sempre in rapporto allo scenario mondiale del momento.
Negli orientamenti concreti, la Dottrina sociale della Chiesa deve svilupparsi in rapporto alle proprie circostanze storiche. Lo scenario internazionale, per lo meno dal 1945 fino alla fine degli anni Settanta, era sostanzialmente influenzato dalle condizioni che determinarono il progetto di Bretton Woods. Entro determinati limiti, esso significó un certo disarmo finanziario, anche se di fatto “sbilanciato” in favore dei paesi più sviluppati. In genere, l’economia globale era strutturata in una serie di “scatole chiuse” – gli Stati o le economie nazionali – che intrattenevano rapporti economici fra di loro. I mercati finanziari, cioè il credito, la creazione di moneta, il commercio, ecc. si trovavano relativamente controllati e governati dagli Stati. I flussi finanziari internazionali di tipo speculativo erano piuttosto secondari e i paesi si collegavano fra di loro tramite gli scambi dei beni e i pagamenti dei medesimi. In questo contesto, le finanze globali erano maggiormente sussidiarie dei rapporti commerciali internazionali ed erano spesso mediate o controllate dagli Stati, tramite il monopolio o la sorveglianza delle operazioni di valuta estera e il finanziamento dell’export e dell’import. Insieme al finanziamento del commercio, un altro capitolo delle finanze internazionali consisteva nei crediti in condizioni preferenziali concessi dai Governi o dagli Organismi multilaterali e indirizzati allo sviluppo strutturale dei Paesi più poveri (l’obiettivo della Banca Mondiale) o nei crediti destinati ad affrontare difficoltà temporanee della bilancia dei pagamenti (in ultima analisi con uno scopo collegato al commercio internazionale).
Nella chiave di presentazione di Limes, possiamo dire che gli accordi di Bretton Woods significarono un certo disarmo finanziario e che dopo la seconda guerra mondiale, durante i pontificati da Pio XII fino alla prima parte di quello San Giovanni Paolo II, l’arma delle finanze rimase piuttosto silente o, comunque, ebbe degli effetti alquanto marginali nei rapporti tra gli Stati, anche se i Paesi in via di sviluppo e la società civile criticavano il sistema di Bretton Woods per lo sbilanciamento in favore dei Paesi più sviluppati, per l’insufficiente assistenza diretta e per l’aiuto finanziario in forma di credito da restituire, che spesso diventava una forma di usura.
In tale contesto è particolarmente significativa l’Enciclica Populorum Progressio, del Beato Paolo VI, che nei primi 22 paragrafi del capitolo secondo, intitolato “Verso lo sviluppo solidale dell’umanità”, dedica ampio spazio allo sviluppo di un sistema di commercio internazionale equo; in concreto il n. 43, sulla “Fraternità tra i popoli” e tutti gli undici numeri del secondo titolo, “L’equità nelle relazioni commerciali”. Il tema delle finanze, invece, non viene considerato globalmente, ma è soltanto oggetto di una proposta specifica: la creazione di un “Fondo Mondiale” in favore dei diseredati, alimentato da una parte delle spese militari. Il suggerimento relativo alle finanze, a cui la Populorum Progressio dedica 5 paragrafi (nn. 51-55), cerca quindi soltanto di aiutare a colmare le lacune del progetto della Banca Mondiale. In breve, nel mondo delle “scatole chiuse” di Bretton Woods, si trattava di aprire le “scatole” al commercio equo e alla cooperazione internazionale.
Paolo VI non si limitò alle esortazioni della Populorum Progressio, ma spinse la diplomazia multilaterale della Santa Sede ad impegnarsi decisamente, nei limiti delle sue possibilità, nell’attività multilaterale di cooperazione economica, seguendo le linee tracciate dal Magistero pontificio. Così, all’inizio del suo Pontificato, nel 1964, una delle più importanti attività internazionale della Santa Sede, come soggetto sovrano di diritto internazionale, fu l’attiva partecipazione alla creazione della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (United Nations Trade and Development Conference – Unctad), agenzia di cui essa è uno dei fondatori e di cui è tuttora membro. L’Unctad, infatti, intendeva essere il pilastro mancante alla costruzione di Bretton Woods/San Francisco, giacché l’Organizzazione Internazionale del Commercio, creata alla Conferenza dell’Avana nel 1946, non riuscì a sopravvivere, perché il Congresso non volle ratificare l’adesione degli Stati Uniti. Sempre durante il Pontificato di Paolo VI, nel 1967, la Santa Sede partecipò alla creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (United Nations Industrial Development Organization – UNIDO).
Con la fine della guerra fredda, si affermó in modo più o meno generalizzato l’economia di mercato, o perlomeno un ruolo importante del mercato nei rapporti economici all’interno degli Stati e nelle relazioni internazionali. In pari tempo, una buona parte dell’attività finanziaria riusciva a “liberarsi” dalla “scatola” dei Governi e a diventare un elemento veramente autonomo, tale da darsi da se stessa le norme di funzionamento. Infatti, non molto dopo l’inizio del Pontificato di San Giovanni Paolo II, cominciò a svilupparsi quella che alcuni economisti hanno chiamato “l’epoca della finanza euforica”, durata dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso fino al 2007-2008 e caratterizzata, dal punto di vista giuridico e politico, da una importante deregolamentazione delle finanze e, conseguentemente, da una sempre crescente assunzione di potere dei mercati finanziari sugli Stati (un vero e proprio take over di fatto). La finanza finì per costituirsi quale coordinamento supremo delle attività economiche attraverso le frontiere. Ciò significò la scomparsa del mondo di Bretton Woods, durato circa 30 anni, all’interno del quale si collocavano gli insegnamenti della Populorum Progressio, e con esso la fine della pace – o piuttosto della tregua – finanziaria cha tale sistema aveva prodotto.
Venne a mancare, così, uno dei quattro pilastri della pace mondiale. Curiosamente, nello stesso momento sembrava rafforzarsi il pilastro del commercio mediante la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization – Omc/Wto). Tuttavia, tale integrazione non corrispondeva totalmente all’idea di integrazione commerciale presente negli insegnamenti di Paolo VI, ma piuttosto si trattava di una composizione o accordo di pace mercantilistico tra una serie di interessi nazionali ed economici: gli interessi delle grandi aziende multinazionali che si erano già espanse in mercati assai diversi ed esigevano maggiore libertà, specialmente in termini di concorrenza e di minori dazi doganali, per integrare le loro produzioni, approfittando dei minori costi di produzione ottenibili in certi paesi. A ciò si aggiunsero le pretese dei paesi grandi esportatori di commodities (Oceania e il Cono Sud dell’America Latina), come pure la pace tra Stati Uniti e l’UE in relazione ai sussidi all’export della produzione agricola, nonché gli interessi delle multinazionali dell’hi-tech a rafforzare la protezione mondiale della proprietà intellettuale; ecc. Per tali motivi, molti ritenevano che l’integrazione commerciale dell’Omc non sarebbe servita, almeno in un primo momento, a promuovere la pace tra i popoli. Meno ancora risultò funzionale a tale scopo quando apparve in ritardo rispetto allo sgretolamento dell’architettura finanziaria che la doveva accompagnare, mentre le finanze “libere” avevano già preso il sopravvento. Il clima psicologico seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 fu poi di grande aiuto per raggiungere il consenso alla IV Conferenza Ministeriale dell’OMC (Doha, dicembre 2001) e per il lancio della Doha Development Round (DDR). La IV Conferenza di Doha riuscì, in parte, a far posto ai Paesi poveri nella normativa dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e ad integrare meglio nelle stesse regole l’idea che il commercio internazionale dovesse essere strumento di sviluppo e di pace.
A questo punto, la domanda, sempre nell’ottica della riflessione sull’economia internazionale al servizio della pace, diviene questa: come e quanto le finanze internazionali, privatizzate, globalizzate e, persino, indipendenti dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi, possono servire alla pace? Per rispondere all’interrogativo occorre fare un passo indietro nel tempo. Fin dall’antichità, i sovrani facevano incidere la loro effige sulle monete, stabilendo così uno stretto legame tra la politica e i mezzi convenzionali e simbolici di scambio. Molto prima, quindi, dell’intervento attivo dello Stato nell’economia la moneta simboleggiava già la presenza della politica negli scambi economici, in principio con lo scopo di garantire la giustizia. La novità che si sviluppa successivamente, a partire dai secoli XIV/XV, è la sempre maggiore associazione della moneta alla politica interna ed estera dei nascenti Stati nazionali e alla guerra. I primordi dell’attività bancaria e degli strumenti di credito commerciali, all’epoca del Rinascimento in Italia prima e poi nei Paesi Bassi, indicano, infatti, che il credito si indirizza, in genere, verso chi ha il potere politico o la capacità di sviluppare grandi imprese economiche: ai sovrani e alle grandi compagnie di navigazione. In definitiva, solo a coloro che sembrano capaci di garantire lauti guadagni. I politici perché ottengono i mezzi per restituire i prestiti e pagare gli interessi dai bottini delle guerre o dalle tasse imposte ai sudditi; i naviganti e conquistatori perché li ottengono con le spezie, i frutti e i minerali portati da oltremare.
Il numero di Limes oggi presentato dà per scontato, quasi come un fatto inevitabile, che nello scenario mondiale del secondo decennio del secolo XXI la finanza sia un’arma nuovamente in mano alle egemonie nazionali. Se così fosse, ci troveremmo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità dalla pace di Westfalia fino alla seconda guerra mondiale. Infatti, il mondo odierno sembra essere tornato a quella matrice sociale, perché, finita l’era del predominio relativo del sistema Bretton Woods/San Francisco, l’accesso facilitato al credito, cioè all’anticipo di moneta, al valore necessario per sviluppare e moltiplicare la produzione, sembra nuovamente riservato soprattutto ai potenti: gli Stati con più capacità industriale, militare, finanziaria, le aziende che sviluppano i prodotti tecnologicamente più avanzati e redditizi, o quelle che pretendono di gestire i rischi del credito stesso. Le aziende si servirebbero del credito per imporre la loro egemonia nel mercato; gli Stati per imporre le loro egemonie nella comunità internazionale.
Non solo la matrice o il modello tardo-medievale e rinascimentale si ripete e ingigantisce, perpetuando il legame della moneta con il potere, ma ad esso si uniscono due altri fenomeni, sviluppatisi nell’età moderna e in quella contemporanea. Il primo è il tentativo di dare una solida certezza giuridica ai mezzi di pagamento, tramite il corso legale della moneta, che così rafforza il suo ruolo di simbolo e presenza del potere politico. Il secondo, che risale soprattutto al secolo XX, è l’intervento dello Stato nell’economia mediante la fissazione dei valori dei mezzi di cambio e il tentativo del controllo della massa di denaro circolante. Lo stesso fenomeno della crescita esponenziale del credito tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente, che provocò la crisi del 2008, non è altro che una conseguenza della scorretta associazione della moneta con il potere, che erroneamente favorì l’espansione creditizia.
La domanda che ci si pone è se il credito governa i governi o se i governi governano il credito, e la risposta è che, come nell’epoca rinascimentale, c’è una associazione di fatto tra i due soggetti: governo e settore finanziario, dove il primo utilizza il credito come strumento della sua attività nazionale ed internazionale e il secondo approfitta della situazione privilegiata che lo Stato, in un modo o l’altro, gli garantisce. Il settore finanziario non si è dunque reso indipendente della politica. Piuttosto ha bisogno di essa allo scopo di mantenere ed aumentare sempre più la propria “libertà di movimento” e perciò cerca di determinarla sia rispondendo direttamente alle necessità di credito dello Stato che tramite azioni lobbistiche. Allo stesso tempo, come in passato, la politica cerca di usare la moneta e il credito come arma di supremazia nazionale ed internazionale.
Come si pone la Dottrina sociale della Chiesa di fronte a queste nuove realtà? È interessante vedere come il San Giovanni Paolo II, già nel 1987, ancor prima della caduta del muro di Berlino, avvertisse circa gli aspetti pericolosi del nuovo scenario che cominciava ad aprirsi. A proposito dei problemi dei paesi in via di sviluppo, il papa venuto da oltre la cortina di ferro ebbe a dire parole profetiche sul rapporto tra moneta ed impero: “È necessario denunciare l’esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati in modo diretto o indiretto dai paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o condizionare le economie dei paesi meno sviluppati” (Sollecitudo Rei Socialis n. 16). Sempre nell’Enciclica Sollecitudo Rei Socialis, al n. 19, Giovanni Paolo II affrontò pure il problema del debito estero dei Paesi poveri in via di sviluppo, questione che diventerà centrale in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000.
Il moderno abuso del credito viene poi rilevato da Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate: “Lo sviluppo dei popoli – disse Papa Ratzinger – degenera se l’umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei ‘prodigi’ della tecnologia… come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai ‘prodigi’ della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti a questa pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente umana dal riconoscimento del bene che la precede…. [ossia] … le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha inscritto nel suo cuore” (Caritas in Veritate n. 68). In precedenza, Benedetto XVI aveva parlato dell’eticità che deve dare forma a tutta l’attività finanziaria e della necessità di creare forme nuove di finanza, a partire dal basso, quali le cooperative, le imprese di comunione o i Monti di pietà dell’alto Medioevo (ib. nn. 45 e 65).
In sintonia con i suoi predecessori, papa Francesco torna ad stigmatizzare la speculazione finanziaria, affrontandola prima dal punto di vista del grave riduzionismo antropologico e associandola alle crisi mondiali: “La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!… La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo (Evangelii Gaudium n. 55). Così, “mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria (ib. n. 56). Di conseguenza, per la Dottrina sociale della Chiesa, una finanza responsabile e un responsabile governo del denaro sono incompatibili con una concorrenza per la supremazia degli Stati e con l’alleanza di fatto tra i meccanismi impersonali della finanza internazionale e la politica internazionale.
Permettetemi ora di aggiungere alcune cose in più al riguardo del presente pontificato. Il numero di Limes che oggi viene presentato include un articolo sulla riforma della normativa finanziaria e di altre norme della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, presentandola quale la risposta del Santo Padre Francesco al problema dell’associazione tra moneta ed impero. Senza escludere anche questa intenzione, a me sembra che tali riforme si riferiscano maggiormente alla vita interna della Chiesa. La riforma, compresi gli aspetti amministrativi e finanziari, è una necessità sentita già prima dell’attuale pontificato, per adeguare sempre meglio la collaborazione della Curia al munus petrino di comunione. Anche la riforma dello Istituto delle Opere di Religione, strumento necessario per la funzione pastorale del papa, deve essere compresa nelle sue giuste proporzioni.
Innanzitutto lo Ior non è mai stato una Banca vera e propria, e molto meno una Banca centrale. D’altra parte e più specificamente, la ristrutturazione dello Ior obbedisce alla necessità di adeguare la normativa e le istituzioni vaticane ad alcune convenzioni multilaterali a cui la Santa Sede ha aderito recentemente, relative alla prevenzione ed il contrasto del riciclaggio, alla prevenzione del finanziamento del terrorismo e alle salvaguardie contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Secondo le informazioni pubbliche della Banca d’Italia, nel dicembre 2012 c’erano in Italia circa 700 aziende bancarie, con più di 32.000 sportelli e con un attivo complessivo di 4.200 miliardi di Euro. Alla stessa data lo Ior pubblicava un attivo pari a 4,2 miliardi di euro, con un’unica sede aperta al pubblico. Lo Ior equivale quindi allo 0,1% del sistema bancario italiano e la sua portata equivale a quella di un unico istituto bancario piccolo (la Banca d’Italia classifica come piccola banca quella cui attivo si aggira tra 1,3 e 9 miliardi di euro). Scherzando un po’, si potrebbe dire che stabilire un rapporto tra la riforma della Curia Romana e degli altri organismi di collaborazione della Santa Sede, tra cui lo Ior, e i rapporti geopolitici tra moneta ed impero è come cercare di paragonare la Guardia svizzera pontificia con le Forze armate di un grande paese.
La risposta del papa all’intreccio finanza-politica internazionale è ben altra. È innanzitutto la condanna della guerra, sempre presente negli insegnamenti papali, durante tutto il secolo XX e XXI. È poi la condanna del nazionalismo e di ogni pretesa di supremazia nazionale. È, infine, il richiamo, particolarmente presente negli ultimi pontificati, a non permettere che la finanza diventi un elemento autonomo, sregolato e slegato dall’economia reale, ma invece si metta al servizio della produzione, della creazione dei posti di lavoro e, in ultima analisi, delle famiglie e degli individui. Per evitare che le finanze siano armi, occorre un saldo sistema multilaterale, che rinnovi le istituzioni esistenti o ne ricrei altre. Occorre rinforzare la fiducia tra i popoli. È degno di nota il fatto che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano ribadito con forza il concetto di “famiglia delle Nazioni” e di “famiglia dei popoli”, appunto nel momento in cui studiosi di geopolitica più o meno alla moda cercavano di imporre l’idea di un conflitto di civiltà. Occorre promuovere una profonda assunzione di responsabilità etica da parte degli operatori finanziari, ricordando la norma, prima ancora che religiosa, propria della legge naturale, di non mentire, nemmeno tramite l’uso di nuovi titoli di credito e sofisticate formule matematiche. Occorre ricordare ai governanti come agli imprenditori che ci deve essere un rapporto ragionevole tra produzione di beni e servizi e il credito, e che questo non si può allontanare indefinitamente ed infinitamente dalla produzione, Occorre, finalmente, ridare una parte importante della gestione del credito alle realtà locali, alle piccole imprese e ai poveri, spezzando, ciò che può essere un legame perverso tra moneta ed impero.
La risposta di papa Francesco alla guerra della finanza è una chiamata alla responsabilità. Alla responsabilità dei politici e dei grandi operatori economici, ma anche alla responsabilità dei piccoli e dei poveri, che devono imparare ad essere padroni dei propri destini e a difendere la propria dignità, quella delle loro famiglie e delle loro comunità.
Agli imprenditori e, in genere, ai grandi operatori economici, il papa ha ricordato che “la vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo” (EG n. 203). E ai politici ha detto che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune (EG n. 205). “È indispensabile che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro piani? Sono convinto – dice il papa – che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale” (EG n. 205). In piena sintonia con il messaggio evangelico, il papa vede che la riforma delle finanze mondiali passa per una vera metanoia dei politici, degli imprenditori e degli altri agenti economici.
Allo stesso tempo, il Santo Padre auspica una riforma dal basso, che liberi i poveri dalla prigione di un assistenzialismo indirizzato al dominio politico delle masse, e faccia sbocciare le forze degli individui, delle famiglie e dei gruppi intermedi. È ben noto come, nell’alto Medioevo e agli inizi del Rinascimento, il popolo cristiano, incoraggiato e guidato soprattutto dai predicatori francescani, rispose alla finanza collegata all’impero con la finanza popolare, strutturata a partire dei monti di pietà. Alla fine del secolo XIX, si giunse alle cooperative che, come ricorda papa Francesco, furono anche la risposta alla prima “globalizzazione capitalistica” che, insieme ad evidenti progressi generò innumerevoli sofferenze ai popoli europei e, purtroppo si collegò alle contese imperialistiche che portarono alla prima guerra mondiale.
Il papa si appella, dunque, agli inizi della formulazione della dottrina sociale della Chiesa, ricordando, in particolare, la figura di Leone XIII e promovendo tutte le forme di azioni cooperative ed altri tipi di nuove imprese sorte dal basso. Faccio riferimento al recente discorso di Papa Francesco ai rappresentanti della Confederazione Cooperative Italiane, del 28 febbraio 2015, di cui vorrei riportare testualmente la parte riferita al denaro: “Il quinto incoraggiamento forse vi sorprenderà! Per fare tutte queste cose ci vuole denaro! Le cooperative in genere non sono state fondate da grandi capitalisti, anzi si dice spesso che esse siano strutturalmente sottocapitalizzate. Invece, il Papa vi dice: dovete investire, e dovete investire bene! In Italia certamente, ma non solo, è difficile ottenere denaro pubblico per colmare la scarsità delle risorse. La soluzione che vi propongo è questa: mettete insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone. Collaborate di più tra cooperative bancarie e imprese, organizzate le risorse per far vivere con dignità e serenità le famiglie; pagate giusti salari ai lavoratori, investendo soprattutto per le iniziative che siano veramente necessarie. Non è facile parlare di denaro. Diceva Basilio di Cesarea, Padre della Chiesa del IV secolo, ripreso poi da san Francesco d’Assisi, che ‘il denaro è lo sterco del diavolo’. Lo ripete ora anche il Papa: ‘il denaro è lo sterco del diavolo’! Quando il denaro diventa un idolo, comanda le scelte dell’uomo. E allora rovina l’uomo e lo condanna. Lo rende un servo. Il denaro a servizio della vita può essere gestito nel modo giusto dalla cooperativa, se però è una cooperativa autentica, vera, dove non comanda il capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale… L’economia cooperativa, se è autentica, …deve promuovere l’economia dell’onestà! Un’economia risanatrice nel mare insidioso dell’economia globale. Una vera economia promossa da persone che hanno nel cuore e nella mente soltanto il bene comune”.
Parlando della finanza al servizio della società, il papa evocava la figura di Leone XIII: “La Chiesa ha sempre riconosciuto, apprezzato e incoraggiato l’esperienza cooperativa…. Ricordiamo il grido lanciato nel 1891, con la Rerum Novarum, da Papa Leone XIII: ‘tutti proprietari e non tutti proletari’. E vi sono certamente note anche le pagine dell’Enciclica Caritas in Veritate, dove Benedetto XVI si esprime a favore della cooperazione nel credito e nel consumo (cfr. nn. 65-66), sottolineando l’importanza dell’economia di comunione e del settore non profit (cfr. n. 41), per affermare che il …profitto non è affatto una divinità, ma è solo una bussola e un metro di valutazione dell’attività imprenditoriale. Ci ha spiegato, sempre Papa Benedetto, come il nostro mondo abbia bisogno di un’economia del dono (cfr. nn. 34-39), cioè di un’economia capace di dar vita a imprese ispirate al principio della solidarietà e capaci di “creare socialità”.
Concludendo, sembra esistere un legame abbastanza evidente tra grande finanza, esercizio del potere e concorrenza tra i vari centri di potere. La precedenza tra pretese imperiali e finanza è difficile da stabilire, e probabilmente entrambi si alimentano a vicenda. I grandi capitali, poi, tendono a finanziare i poteri stabiliti e le attività più redditizie – oggi in genere quelle di tecnologia sofisticata – e il credito non è accessibile al popolo. La Chiesa – e con essa la Santa Sede – a partire dall’affermazione della superiore dignità dell’uomo, non si arrende di fronte a questo stato di cose e persevera nel richiamare la dignità dell’essere umano. Nell’ambito delle questioni fin qui trattate, ciò significa: 1) la condanna della guerra e di ogni superbia o egoismo nazionalistico – anche nelle sue manifestazioni finanziarie; 2) la promozione, senza mezzi termini, di una responsabilità etica dei grandi agenti politici o economici; 3) l’incoraggiamento della libera ed efficace partecipazione dei poveri alla costruzione della propria dignità economica.
Nel ringraziare nuovamente gli organizzatori, il dott. Caracciolo e il dott. Schiavazzi, per la cortese opportunità offertami, come pure quanti sono voluti intervenire quest’oggi, spero che queste brevi riflessioni possano costituire uno stimolo ad uno studio approfondito della questione, che contribuisca a trovare le vie e i mezzi necessari affinché l’economia e la politica siano sempre più al servizio di tutta l’umanità, specialmente dei più poveri.
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
Ennio Flaiano